FACTOTUM
 

recensione factotum

 
Il regista norvegese Bent Hamer lo avevamo conosciuto con "Racconti di Cucina - Kitchen Stories", nomination all’Oscar 2004 per il miglior film straniero. Il lavoro, a detta di tutta la critica, conteneva il difetto di promettere molto inizialmente ma non di decollare: "il plot (quasi inesistente) non si rivela all'altezza delle aspettative" (MyMovies). Caratteristica negativa che ritroviamo, ampliata a dismisura, in questo "Factotum". Per l’intero film assistiamo alla presentazione di vari tipi umani (uno più disperato dell’altro) e siamo in attesa che la storia prenda piede: il tutto sembra una premessa necessaria a un qualcosa che non arriva mai. E non arriva, anche perché "una storia" non c’è. Abbiamo due situazioni (il protagonista trova lavoro e si fa licenziare, il protagonista trova una ragazza e poi la lascia) ripetute, sempre  
 
le stesse e con le medesime modalità: in un libro può andare bene (dipende dalla qualità della scrittura) ma in un’opera cinematografica non è accettabile a meno che a dirigere il tutto non sia un grande poeta. Hamer non riesce a creare una atmosfera, a trasmettere pathos. Non aiutano gli attori che "recitano" troppo e troppo sulle righe non comunicando con lo spettatore che tende così a non interessarsi a quanto vede  
sullo schermo. Un’occasione sprecata di ritrarre un’America, sporca e tormentata, solitaria e depressa, diversa da quella che Hollywood solitamente ci mostra. Il ricordo va immediatamente a Marco Ferreri e a quello che riuscì a fare, nel 1981, con "Storie di ordinaria follia": anche qui l’ispirazione erano le opere di Charles Bukowski (lavori senza futuro, notti e giorni passati a bere e a fare l’amore tra un‘umanità sconfitta e dannata… tentando di trasferire il tutto nei libri). Ferreri riuscì a cogliere "l’anima", al contempo semplice trasparente ironica grottesca crudele… romantica, di colui che molti definiscono "il poeta scellerato" di Los Angeles che passò molti anni ciondolando nei bar come un barbone (finché il successo letterario corresse, ma fino a un certo punto, le sue abitudini). Hamer compie invece un’operazione fredda e asettica, monocorde e a volte francamente noiosa: nulla appare del genio e della sregolatezza di Bukowski. Ultima notazione. Continuamente sentiamo, fuori campo, il protagonista che fa le sue considerazioni sulla vita, su se stesso, sulle persone che incontra. Un personaggio che si muove come uno zombi, che ha sempre lo sguardo assente, che fuma e beve continuamente per 24 ore… come fa ad avere la voce perfetta e "pulita" di un fine dicitore? Stupisce perché il doppiatore, Angelo Maggi, si è mostrato più volte bravissimo nel dare la voce italiana a Tom Hanks, Joe Turturro, Tim Robbins, Rupert Everett , Daniel Auteuil... Colpa di chi ha diretto il doppiaggio? Scelta inspiegabile del regista? La cosa comunque contribuisce a rendere il film ancora più artefatto e meno convincente. Per dovere: il film è molto piaciuto alla critica americana ("Variety" lo avvicina ai migliori lavori di Jim Jarmusch), ricoprendo di lodi regia, attori, fotografia.

(di Leo Pellegrini)

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