PAROLE SANTE
 
 

di Dario Bevilacqua (***)

 

di Giorgio Neri (***)

Marco, Peppe e Gianluca lavorano nella sede romana del più grande call center d’Italia: l’Atesia. Marco, Peppe e Gianluca sono precari. Che significa essere precari? La definizione, spiega Celestini, è difficile, come lo è un’eventuale tassonomia o quantificazione (sono circa 14 milioni ma, emblematicamente, il numero muta ogni giorno) di tale categoria di lavoratori. In verità, ciò che è precario è il loro contratto: gli operatori dei call center, come molti altri individui che prestano la loro forza lavoro in quasi tutti i settori della società, non vedono tutelato il loro lavoro da alcuna garanzia giuridica sostanziale, né da contratti collettivi; non sono sindacalizzati e non hanno diritto a ferie o a permessi di malattia. Il loro salario è spesso a cottimo e comunque insufficiente. E possono essere licenziati in qualunque   Il docu-film dell'attore-scrittore Ascanio Celestini colpisce per la semplicità e la sincerità. Il problema della precarietà all'interno del call center più grande d'Italia, Atesia, non costituisce il solito discorso etico-moraleggiante, portato avanti da molti altri artisti (come Beppe Grillo, ad esempio). Esso è un'asciutta documentazione da parte delle parole stesse di chi ha lavorato in quell'azienda e ne ha subito: 1) lo sfruttamento per pochi centesimi al minuto (85 centesimi lordi per 2 minuti e 40 secondi come anche per 2 ore). 2) l'abbassamento del proprio salario (di per sé già basso, ma è meglio passare da 85 a 80 centesimi, no?). 3) la subordinazione ad un potere che non accetta assemblee autorganizzate, quando si scatena una protesta. 4) i sindacati che si mettono d'accordo con l'azienda e, ottenendo agevolazioni in campo sanitario, tredice-
 
 
 
momento. Un elemento accomuna i così detti lavoratori precari: l’incapacità di resistere, la mancanza di forza per reagire, l’ineluttabilità della loro condizione. Sono consapevoli che, pur vivendo in quello che viene venduto come “il migliore dei mondi possibili”, se perdono quel poco che hanno sono perduti. E così, come l’uomo che vede il rubinetto gocciolare (di cui parla Celestini nel prologo e nell’epilogo del documentario) e non interviene, lasciando che la stanza e poi il palazzo intero si allaghino, anche loro si lasciano andare, senza neanche più pensare a provare a cambiare la situazione che si fa a poco a poco sempre più tragica. Ma Marco, Peppe e Gianluca, e con loro altri lavoratori dell’Atesia come Cecilia, Valerio e Manuela, sono diversi dagli altri “precari”: creando, nel 2000, l’“Assemblea Coordinata e Continuativa contro la precarietà”, costituiscono una prima forma di sindacato autogestito, un comitato interno, con funzioni di informazione (la produzione di un piccolo giornale), discussione (nelle frequenti e affollatissime riunioni) e protesta (organizzando scioperi e sit-in). Grazie al loro sforzo ottengono un’ispezione da parte dell’Ufficio Provinciale del Lavoro. Il rapporto dell’organo ispettivo segnerà una vittoria, che si rivelerà di Pirro, in un Paese in cui sindacati e politici voltano le spalle a chi chiede loro aiuto e lasciano che il peso insostenibile della crisi economica poggi tutto sulle spalle dei deboli. Ma l’esperienza di Marco, Peppe e Gianluca, e anche di Ascanio, che realizza un documentario semplice e accattivante, per lo più costituito dalle interviste ai lavoratori, e canta e recita per loro, è un esempio illuminante: è un faro per tutti i reietti, per tutti i deboli e per tutti gli oppressi, che, uniti, possono comunque provare a lottare. E non importa se alla fine non otterranno ciò che chiedevano: ciò che è importante è che abbiano lottato per qualcosa in cui credevano.





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  sima e quant'altro, per i lavoratori portano il salario a 550 euro, cioè sotto la soglia della povertà. 5) gli intervistati, ma anche altri di loro, che rifiutano di ritornare a quel lavoro o si licenziano o vengono licenziati. 6) E infine la polizia che manda loro degli avvisi di garanzia per le manifestazioni che avevano progettato con il collettivo. Questa è l'Italia del lavoro. In cui il lavoratore di 40 anni così come lo studente di Università si muovono sullo stesso percorso minato. La necessità di avere un lavoro e di ottenere dei soldi per vivere portano quattromila persone all'interno di un grande edificio nei pressi di Cinecittà; a fare cinquemila click sul mouse per vedere i dati del cliente che telefona (Cecilia, una ragazza intervistata, dovrà ricoverarsi per un problema grave di tendinite); a parlare anche per molto tempo con gente che fa scherzi di ogni sorta o con "maniaci zozzoni che non hanno i soldi per potersi pagare la telefonata sulle linee erotiche", come dice lo stesso Celestini, perché almeno si cerca di guadagnarti il proprio salario; a vedersi riconosciuti dei diritti ma senza un aumento decente del salario, soltanto perché l'azienda deve evitare di versare troppi soldi all'INPS e all'INAIL; a sostenere una divisione in classi all'interno del posto di lavoro, in cui vi sono i lavoratori alle postazioni e gli ATS, cioè coloro che controllano l'andamento del lavoro, senza mai vedere i potenti che stanno nei piani alti e muovono sulle loro teste decisioni improrogabili e di livellamento lavorativo (infatti, chi farà parte del collettivo non vedrà il proprio contratto rinnovato), o di classismo, come la suddivisione dei clienti in copper (pezzente), silver e gold (i quali hanno degli operatori specifici e di 'lusso') e, infine, una applicazione della legge n.30 (quella di Biagi) che non risolve niente ma fa il gioco delle aziende per sfruttare al massimo senza pagare più di tanto; per ultimo, il dulcis in fundo, cioè gli stessi lavoratori che vengono indagati. Ma questo è giusto se si prende alla lettera la legge: c'è stata una violazione a causa di picchetti o manifestazioni non autorizzate. Ma sorge una considerazione: l'Atesia non paga i dipendenti il giusto perché i contratti non vengono rispettati, eppure la legge non ha effettuato nessuna sanzione pesante per ripristinare una condizione vivibile di lavoro, quindi il nostro è ancora un paese di pezzenti-ricchi, che si attaccano ad ogni centesimo pur di non voler cedere niente al prossimo, quando gli è legittimamente dovuto? O è più facilmente un paese di merda, come disse Luttazzi?. Qui la volgarità è d'obbligo, di fronte alla tristezza di una situazione che va avanti da molti anni. E se qualcuno si offende, forse si sente in colpa di sfruttare chi chiede solo di vivere senza subirne le angherie. Ma forse, come dice Celestini all'inizio e alla fine del film (con l'esempio dell'uomo e della goccia), l'Italia è un paese di gente che decide di suicidarsi se deve stare ad aspettare o ad ascoltare i partiti e il Governo, perché è inerte e qualunquista. Il film, si legge su giornali e siti internet, viene diretto dal 'cantore delle ballate', dal 'comico intelligente', verte sul genere 'commedia'. Ma a me, e questo lo dico personalmente, ha fatto piangere e arrabbiare al tempo stesso. Non c'è più niente da ridere.





 
 
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